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Messaggio Da Verci Mer Ago 07, 2013 11:46 am

Riporto questo condivisibile editoriale di Ezio Mauro:

DI CHE cosa stiamo discutendo? Non più della responsabilità di Berlusconi definitivamente accertata dalla giustizia (frode fiscale, reato penale, truffa al mercato, fondi neri per 270 milioni di euro), perché la destra ha accuratamente spazzato dal tavolo tutto questo un minuto dopo la sentenza, con il contributo decisivo di una sinistra sordomuta e di un giornalismo che evita i fatti concreti: come se non fossero il cuore del problema, di cui rendere avvertita e consapevole la pubblica opinione.

No: stiamo invece parlando di come costruire un salvacondotto a posteriori per Silvio Berlusconi, perché nella leggenda epica con cui lui stesso racconta le sue gesta non si contempla un potere esterno di controllo sul leader scelto dal popolo, quindi non è prevista una sentenza e semplicemente non si può accettare una condanna.

La questione è tutta qui, elementare come sa essere il populismo nelle sue formulazioni più estreme, assolutamente inedita nella storia delle democrazie occidentali. Ma il punto è questo.

Si parli di grazia, di amnistia, di pena commutata, di sanatoria ad personam, di agibilità elettorale, di errori inopportuni come le dichiarazioni del presidente Esposito ieri, la destra chiede al sistema politico, parlamentare e soprattutto istituzionale di sanzionare la sovranità speciale di cui Berlusconi si sente investito, mettendolo al riparo dalla legge, anzi sopra, o meglio fuori. Dove? In un luogo quasi più mistico che politico, un mondo a parte, quasi uno Stato parallelo, dove il suo carisma possa soffiare libero e intangibile in modo da diventare eterno, magari proprio attraverso la successione dinastica e familiare, che avrebbe il pregio di perpetuare il conflitto d’interessi del partito azienda, consacrando nei secoli la potenza e la diversità di questa anomalia costitutiva e sproporzionata della destra italiana.

Tutto questo teoricamente avviene nel nome del “popolo”, gli otto milioni di elettori, la folla portata in pullman in via del Plebiscito per assistere alla commozione del leader amareggiato, ferito, ma comunque “innocente” di fronte alla congiura dei giudici e quindi invulnerabile nel cerchio immobile del carisma perenne. Ma come in tutta la rappresentazione ormai ventennale di questa vicenda formidabile e terribile, fin dal primo messaggio in cassetta tivvù, il popolo è la platea e la piazza, da cui sale l’unzione elettorale, la delega e la vibrazione di consenso.

La ragione vera del salvacondotto sta nella “specialità” di Berlusconi. I suoi cantori, i suoi uomini, i suoi collaboratori non lo dicono esplicitamente, ma la ragione è questa. Spiegano che non si può arrestare un leader politico, e si accorgono che questa affermazione cozza con la storia, con la cronaca, con la logica. Allora aggiungono che Berlusconi deve essere lasciato libero «per la sua storia», perché non è un leader come gli altri, perché la sua stessa anomalia è un monumento politico di diversità che lo rende non fungibile, non sostituibile, non ereditabile. Unico, dunque, non soltanto fondatore della destra ma suo continuo ed esclusivo generatore. Appunto, speciale.
Il fatto è che in democrazia, e vigente una Costituzione, non c’è modo di trascrivere questa specialità nel diritto, nei suoi codici e nelle procedure. I cittadini sono tutti uguali, svolgono ruoli diversi, ma sono ugualmente sottoposti alle leggi e ai principi della legge fondamentale, a garanzia della convivenza civile, della libertà di tutti, i più forti e i più deboli.

Naturalmente tutti abbiamo interesse, nel libero gioco politico, che il leader legittimamente scelto da un movimento e dai suoi elettori lo rappresenti e lo impersoni, cioè faccia politica: ma abbiamo un interesse uguale e ugualmente legittimo al sistema costituzionale dei controlli, tra il controllo di legalità, vale a dire l’accertamento della giustizia nelle forme previste dalla legge, uguali per tutti. Dunque anche quell’uomo politico legittimato dal consenso dei suoi sostenitori che lo hanno scelto come leader, anche lui è soggetto alla legge. E agendo sulla scena pubblica, e puntando ad amministrare la cosa pubblica, la sua legittimità in tutti i Paesi democratici dipende anche dalla sua capacità di rispettare la legge e lo Stato di diritto.

Qui – e solo qui – sta avvenendo l’opposto. Nel momento della condanna, Berlusconi chiede di non essere più considerato cittadino, e pretende che il suo ruolo di leader gli garantisca uno statuto speciale, perché così vuole il popolo che lo ha scelto. Sembra di sentire D’Annunzio in un altro momento supremo, a Fiume: “Io sono rientrato nel popolo che mi generò, sono mescolato alla sua sostanza”.
Ma mentre un Capo rivoluzionario può reclamare la sua intangibilità in nome del popolo, perché dalla massa e dalla fede guadagna quel rapporto di forza che userà contro l’ordine costituito, un leader occidentale moderno sa di non poterla nemmeno concepire, questa intangibilità speciale: perché si muove dentro un meccanismo di costituzione e di istituzioni da cui – tra un voto e l’altro – riceve quotidianamente potestà ma anche limiti, forza e garanzia, in una parola quella speciale autorità che chiameremmo volentieri repubblicana.

Per queste semplici ragioni un capo dell’esecutivo che usasse il legislativo per crearsi uno scudo personale contro il giudiziario (è accaduto, purtroppo, e solo qui) commetterebbe un abuso, che è anche arbitrio, perché il potere si sente talmente forte da utilizzare la sua discrezionalità in forma estrema. Ma che dire quando tutto questo avviene dopo una condanna, per mandarla a vuoto, considerarla nulla, cancellarla per sopruso sovrano davanti agli occhi dei cittadini?

Siamo tecnicamente davanti (la politica e le istituzioni non possono ignorarlo) allo “stato d’eccezione”. Carl Schmitt diceva che è effettivamente sovrano chi ha il potere di decidere sullo stato d’eccezione, ha cioè la capacità e la forza – il potere – in queste circostanze speciali non di garantire l’ordinamento esistente, ma di romperlo e di ricrearlo rifondando le leggi e il diritto in base alla propria nuova, suprema legittimità, e ottenendo obbedienza.

Ma dobbiamo infine dare un nome alle cose: nella filosofia politica, il potere che scioglie se stesso dal bilanciamento dei poteri concorrenti si chiama assolutismo, il potere che non riconosce i suoi limiti si chiama autoritarismo, il potere che istituzionalizza il carisma, bonapartismo. Naturalmente non siamo a questo punto, per sproporzione evidente dei protagonisti in campo. Ma la disperazione berlusconiana sta raccogliendo tutti gli elementi sparsi della cultura ventennale di una destra populista, carismatica, a-occidentale, per comporre una testa d’ariete e forzare istituzioni deboli, partiti prigionieri della loro indeterminatezza, soprattutto identitaria.

Perché non c’è alcun dubbio che una sinistra consapevole di sé e della Repubblica dovrebbe leggere i pericoli e i segnali di questo passaggio, e dare subito un altolà definitivo. Anche per non lasciare il Capo dello Stato unico bersaglio di questo urto di sistema, con la destra che prova a trasformare la politica in forza per farla prevalere sul diritto. Il ricatto sul governo è ovviamente irricevibile (come ha spiegato Eugenio Scalfari e come ha fatto capire Enrico Letta) e si smonta da solo: sia perché il governo è l’unico spazio di negoziazione rimasto a Berlusconi, che dunque non lo annullerà, e sia soprattutto perché la stabilità è un valore ma non una

moderna divinità sul cui altare si può sacrificare tutto, principi, separazione dei poteri, stato di diritto e democrazia.

Basta semplicemente dire no, a testa alta, davanti al Paese. Spiegando che questo non è l’ultimo atto di una rissa ideologica. Ma il prologo di un cambio di sistema, dove un cittadino può provare a nominarsi sovrano e bandito insieme, perché vuole fondare il suo potere proprio così: calpestando la legge.

(07 agosto 2013)


http://www.repubblica.it/politica/2013/08/07/news/l_editoriale_-_perch_bisogna_dire_no-64398348/?ref=HREA-1
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