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Globalizzazione, addio. I sonni inquieti di Morgan Stanley

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Messaggio Da Condor Ven Nov 01, 2013 11:52 am

Globalizzazione, addio. I sonni inquieti di Morgan Stanley

Il 2013 potrebbe essere l’anno di svolta: dopo vent’anni di trasferimenti frenetici di capitali, merci e knw-how da un continente all’altro, senza vincoli né frontiere, Morgan Stanley ha dedicato la newsletter di domenica scorsa, un documento riservato ai sui grandi clienti, al processo di rinazionalizzazione degli investimenti e delle produzioni che sembra esservi avviato a cinque anni dall’inizio della crisi del 2008.
Si ripeterebbe lo stesso processo a ritroso che iniziò nel 1913, giusto un secolo fa, al culmine della Golden Age of globalization iniziata in Europa nel 1870, con la vittoria di Berlino nel conflitto franco-prussiano. Forse c’è il timore che anche per le grandi banche d’affari, protagoniste indiscusse della globalizzazione e del mito del mercatismo, sia finita l’età dell’oro: se tutto ritorna all’interno delle frontiere nazionali, investimenti e produzione, di spazio per dominare il mercato e per decidere dei destini delle nazioni ne rimarrebbe davvero poco.
La risposta al perdurare della crisi è il ritorno a casa, dei capitali e delle produzioni. Globalizzazione, addio!
Gli eccessi nel rigore europeo e nella creazione di liquidità in dollari hanno squilibrato ulteriormente il sistema globale
Dopo la crisi, gli squilibri non sono diminuiti, anzi. Ci sono gli effetti negativi della politica di austerità adottata in Europa, come risposta alle tensioni sull’euro determinate dai timori per il default degli Stati periferici e dei loro sistemi bancari: la deflazione interna determinata dalle manovre fiscali restrittive ha prodotto una riduzione generalizzata delle importazioni.

L’Eurozona risulta commercialmente in attivo verso il Resto del Mondo: produce, esporta, ma non compra abbastanza, né dagli Usa, né dalla Cina, né dal Giappone. Ha ridotto anche gli acquisti di energia. Per sistemare i propri conti sta mettendo tutti gli altri a ko.
Ci sono poi gli effetti indiretti della politica di eccezionale accomodamento monetario adottata dagli Usa. Negli anni scorsi le economie dei paesi emergenti erano state travolte da un afflusso colossale di liquidità, che ne aveva drogato la crescita: un fenomeno così violento che in Brasile era stato soprannominato “tsunami monetario”.
Di recente, al contrario, non appena la Fed ha preannunciato la fine del Qe3, si è verificato il fenomeno opposto: un ritiro altrettanto violento dei capitali che ritornano sulle piazze finanziarie occidentali in vista di più alti tassi di interesse sulle piazze occidentali: una colossale risacca, con le valute che perdono valore vistosamente e le economie che crollano. Anche con il cambio svalutato, non c’è una prospettiva di compensazione sulle esportazioni, perché l’Europa non compra.
Il premio Nobel per l'Economia Paul Krugman
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Il fallimento della globalizzazione, un secolo dopo: il 2013 come il 1913
Il 2013, secondo Morgan Stanley, potrebbe segnare la fine della globalizzazione, come accadde nel 1913. Corsi e ricorsi storici, si direbbe con Vico. Il report cita le parole con cui Paul Krugman già quindici anni fa descriveva gli enormi benefici che nella seconda metà dell’Ottocento erano stati determinati dalla caduta delle frontiere economiche. Tutto si basava sulla fiducia, già allora comunemente condivisa, che il libero mercato insieme alla certezza dei diritti di proprietà fosse l’unico modo che potesse assicurare il progresso economico. Nessuno osava opporsi alla globalizzazione, perché sarebbe stato punito dalla crisi finanziaria: sarebbe stato emarginato dai processi di integrazione e crescita.
Continuiamo con le citazioni: stavolta con le parole di chi la storia della globalizzazione non l’ha descritta, ma decisa. Fu Bill Clinton, il 30 gennaio del 2000, a dare il via libera all’ingresso della Cina nel Wto, annunciandola a Davos: «Dobbiamo riaffermare con la massima chiarezza che l'apertura dei mercati e il commercio basato sulle regole è il miglior motore conosciuto per aumentare il tenore di vita, ridurre il danno ambientale e costruire una comune prosperità, e questo è vero a Detroit, Davos, Dacca o Dakar». Clinton proseguiva così: «Molti hanno contestato il libero commercio perché genuinamente preoccupati per i poveri e gli svantaggiati, ma dovrebbero chiedersi che prospettive di lavoro avrebbe l'operaio tessile del Bangladesh se quell'industria potesse contare solo sui consumatori interni». L’America era pronta a comprare senza limiti le merci prodotte in Cina, naturalmente in cambio di dollari: il processo di globalizzazione, che sembrava essere stato bloccato dopo le proteste dei no-global a Seattle, ripartì.
L'ex presidente americano Bill Clinton
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Un processo sostanzialmente analogo è accaduto in Europa: la caduta del Muro di Berlino e l’allargamento dell’Unione a tutti i Paesi ex-comunisti ha creato un mercato unico enorme, dando la possibilità a milioni di persone di integrarsi nel processo di produzione capitalistica.
Gli squilibri geopolitici in Europa
Ciò che nel 1870 era stato determinato dalla vittoria dell’Impero prussiano nella guerra con la Francia, corrisponde ad una globalizzazione incruenta voluta dagli Usa e dalla Unione europea come passaggio epocale dopo il crollo del comunismo a partire dal 1989. Ma non va trascurato il fatto che fu proprio lo sbilanciamento politico in Europa, determinato dalla saldatura tra Prussia, Impero austro-ungarico ed Italia, a creare i comuni timori di Francia, Gran Bretagna e Russia: la creazione di un blocco mittleeuropeo a guida prussiana, senza contrappesi continentali, era visto come un pericolo per gli equilibri politici, economici e finanziari globali.
Già l’Inghilterra, nel 1913, aveva una bilancia commerciale in disavanzo, cui rimediava con i proventi coloniali e le rendite della intermediazione finanziaria: la venalità della City assicurava quel benessere che le filande e le tessiture non potevano più assicurare, nella competizione del lavoro nelle colonie imperiali.

L’impero austro-ungarico, nella sua capacità di aggregare mondi, tradizioni, popoli e lingue tanto diverse sotto la corona degli Asburgo, aveva assunto in precedenza la funzione di contrappeso: per resistere alle pressioni espansionistiche dell’Impero ottomano verso i Balcani, dell’Impero russo verso il mondo slavo e dell’Impero prussiano verso i popoli di lingua tedesca. La debolezza odierna della Francia nel suo asse con la Germania ed il venir meno del consistente peso politico dei Paesi dell’area periferica, dalla Grecia alla Spagna, dal Portogallo alla Grecia, dall’Irlanda all’Italia, ripete quel pericoloso squilibrio in Europa.
Gli squilibri globali e l’incapacità della finanza di porvi rimedio
Rimane un punto cruciale: la crisi è stata determinata dai crescenti squilibri commerciali fra le diverse aree del globo ed all’interno dell’Europa, cui il sistema finanziario non è riuscito a dare alcuna risposta. È una questione che si ripete: già nel dopoguerra, il crescente attivo commerciale giapponese non trovava sbocco e determinò un vertiginoso aumento di prezzo degli asset immobiliari interni: fu una bolla immensa, da cui Tokio ha faticato immensamente per uscire. L’attivo commerciale dei paesi petroliferi, determinato dall’aumento dei prezzi, è stato acquisito dal sistema finanziario internazionale che lo ha utilizzato per indebitare l’America latina, determinando una sequela interminabile di default.
Di recente, l’attivo cinese viene reimpiegato per sottoscrivere bond del Tesoro americano: si drena liquidità per evitare che si stampino altri dollari in continuazione e che una svalutazione della divisa americana vada a discapito della competitività delle merci prodotte in Cina. L’attivo tedesco ha ubriacato la Spagna, la Grecia e non solo: per anni ha finanziato il debito pubblico e quello privato.
La New economy, teorizzata alla fine degli anni Ottanta come fondamento economico della globalizzazione, avrebbe assicurato all’Occidente un vantaggio competitivo sui Paesi emergenti e le economie ex-comuniste: padroneggiando il flusso di reddito che ne sarebbe derivato, poteva più che compensare la perdita di lavoro determinata dall’abbandono della Old Economy. La manifattura non faceva più per i Paesi occidentali, che si deindustrializzarono a tappe forzate. Non è stato così: i livelli di quotazione delle società telefoniche, di informatica e degli internet service provider raggiunti alla vigilia dello scoppio nel febbraio del 2001 della bolla delle @.com non sono stati mai più raggiunti.
L’economia digitale si è diffusa per il globo, senza poter trattenere in forma di incassi la trasmissione sulle reti dell’enorme massa di dati, di informazioni e di comunicazioni che fluisce istantaneamente. Il modello di business era fallito: mentre si prevedeva che, percependo appena un centesimo di cent per ogni mail spedita o mb/s ricevuto, si sarebbe arriviati velocemente ai fantastiliardi di revenues, la rete si è dimostrata incapace di recuperare il denaro.
Non vi sono meccanismi di riequilibrio: chi si arricchisce sul versante commerciale pretende di lucrare ulteriormente prestando ciò che ha accumulato a chi non aveva denaro. Se Cina e Germania aumentassero i loro consumi interni e le importazioni, il loro attivo si azzererebbe: ci sarebbe più benessere, ma non l’accumulo finanziario.
La fine di un sogno: la ricchezza infinita ed eterna
Non siamo di fronte ad una crisi della globalizzazione, ma al risveglio di Faust: quello della ricchezza infinita e perenne, che si accumula senza sosta, è stato solo uno stupido sogno. Anche di questo, forse, le grandi banche d’affari hanno timore.

http://www.huffingtonpost.it/2013/10/01/report-morgan-stanley-globalizzazione_n_4022627.html
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